La lunga e per certi versi irripetibile campagna elettorale americana ha attirato su di sé l’attenzione del mondo, sia quello politico che quello economico perché dalle scelte del presidente americano dipende, da sempre, l’andamento del mondo e in questo caso, data la vittoria di Trump, soprattutto quella europea. Vediamo i numeri.
L’aumento dei dazi, soprattutto sulle merci cinesi
Al centro della campagna di Donald Trump c’è sempre stata la politica commerciale degli Usa. Gli Stati Uniti sono il maggiore importatore del mondo, nel 2023 hanno comprato beni e servizi dall’estero per 3.857 miliardi di dollari, cioè 3.564 miliardi di euro. Il dato saliente, però, è che gli Usa sono soprattutto il Paese con il maggiore deficit commerciale, la differenza tra export e import è stata di 784,9 miliardi di dollari, ovvero il 2,8% del Pil. Nonostante ci sia stato un notevole miglioramento rispetto al 2022 (quando il deficit era stato di 944,8 miliardi di dollari), i numeri sono enormi soprattutto se paragonati agli avanzi commerciali di Cina ed Unione Europea.È proprio con la Cina e con la Ue che è maggiore il deficit americano, rispettivamente di 252,1 e di 125,1 miliardi di dollari, mentre quello verso l’Italia di 47,1 miliardi. È per questo che Donald Trump ha proposto un dazio base per tutti i prodotti provenienti dall’estero del 10% o del 20% e uno addirittura del 60% su quelli cinesi, fino al 100% nel caso delle automobili. Cosa succederà se queste tariffe verranno davvero applicate? Secondo Tax Foundation se la tariffa base fosse del 20%, questo significherebbe un dazio medio del 17,7% sulle importazioni, un valore che non si vedeva dal 1934, dai tempi della Grande Depressione, mentre se fosse del 10% si ritornerebbe comunque agli anni ’40.
In termini concreti secondo i calcoli della London School of Economics questi aumenti dei dazi comporterebbero un effetto negativo sul Pil della Cina dello 0,68% e su quello dell’Unione Europea dello 0,11%. Ma anche per il prodotto interno lordo Usa le conseguenze di breve e medio periodo sarebbero negative: -0,64%. È interessante il fatto che tra i grandi Paesi europei l’Italia sarebbe l’unico che in realtà beneficerebbe di questi dazi, con un effetto positivo sul Pil, seppure minuscolo, dello 0,01%, mentre per la Germania sarebbe negativo per lo 0,23%, e per Francia e Regno Unito per lo 0,1% e lo 0,14%. Il motivo è che per il nostro Paese i dazi al 60% contro la Cina aiuterebbero la nostra economia più di quanto quelli contro i nostri prodotti la danneggerebbero, perché i settori in cui siamo concorrenti con i cinesi nell’export verso gli Usa, come macchinari e industria tessile, pesano per l’Italia molto più che per altre economie. Queste tariffe, insomma, favorirebbero le vendite Oltreoceano delle nostre imprese a danno di quelle cinesi. La London School of Economics analizza anche il caso in cui Cina e Ue volessero rispondere agli Usa con dazi uguali, in questo caso l’effetto complessivo sul Pil americano ed europeo sarebbe peggiore, come si vede dal nostro grafico. JP Morgan ha stime più moderate della London School Economics sull’impatto sul Pil americano dell’aumento dazi, ma comunque negativi: le tariffe all’import dovrebbero far diminuire la crescita Usa dello 0,3-0,5% nel 2025. Allo stesso tempo provocherebbero un aumento dell’inflazione dell’1,5-2%, che però svanirebbe nel tempo, soprattutto se contemporaneamente fosse aumentata l’offerta di gas e petrolio Usa e in effetti Trump ha promesso, di far calare i prezzi del 10-15%. JP Morgan è invece più pessimista sull’impatto sul Pil europeo: quello dell’Eurozona subirebbe un peggioramento dello 0,7%, che è moltissimo se consideriamo che la crescita del Pil europeo è stimata in 1,2% nel 2025. Bloomberg presenta altre stime, calcolando un effetto negativo complessivo dei dazi sul prodotto interno lordo americano del 0,8% tra il 2025 e il 2028 se la Cina reagisse con limiti all’export americano, e dell’1,3% se a reagire fossero anche le altre economie. Allo stesso tempo i prezzi in Usa aumenterebbero nel primo caso del 4,3% e nel secondo dello 0,5%.
Non tutti i dazi vengono per nuocere
Altri analisti, come quelli di The Atlantic, contestano che gli effetti dei dazi possano essere solo negativi. La permanenza della manifattura negli Usa, seppure a prezzi superiori, preserverebbe il know how e quindi favorirebbe l’innovazione nel lungo periodo. Inoltre, la presenza di tariffe costringerebbe le multinazionali a produrre in Usa, portando impianti e posti di lavoro, come accaduto nel recente passato per LG e Samsung e negli anni ’80 per le industrie giapponesi dell’auto dopo i dazi decisi contro di esse. Questo effetto, assieme ai maggiori introiti del bilancio federale (che potrebbero essere spesi sul territorio) e alla permanenza dei posti di lavoro, controbilancerebbero gli impatti negativi sul Pil e sull’inflazione rendendoli molto più limitati. Quello su cui c’è un certo consenso è che le politiche protezioniste di Trump porterebbero a un indebolimento dell’euro, che potrebbe arrivare, secondo Goldman Sachs, persino alla parità con il dollaro. Ciò avverrebbe come reazione del mercato che ha bisogno di acquistare prodotti cinesi o europei, rincarati per i dazi, a un prezzo minore, e anche per un possibile rialzo dei tassi cui la Fed potrebbe essere costretta per la maggiore inflazione.
L’impatto delle politiche migratorie
Inflazione, Pil e altre variabili economiche dipendono naturalmente anche da molti altri fattori, per esempio dall’immigrazione. Gli scenari possibili, nel contesto di un irrigidimento delle politiche migratorie, come promesso da Donald Trump, sono principalmente tre. Il primo include la chiusura del confine, in questo caso il numero degli immigrati clandestini passerebbe, secondo Bloomberg, dai 17,3 milioni attuali a 18,1 milioni nel 2028, cioè 2,7 milioni in meno di quelli stimati a legislazione vigente. Ciò porterebbe a un effetto negativo sul Pil dell’1% da qui al 2028 a causa della minore offerta di lavoratori, ma allo stesso tempo un calo dello 0,2% dell’inflazione per una riduzione della domanda. Se, però, fossero messi in atto quei rimpatri che Trump ha nel programma, i numeri sarebbero più importanti: con il rimpatrio dei clandestini arrivati dal 2020 in poi l’impatto sul Pil americano sarebbe negativo per il 2,2% e il carovita sarebbe meno forte per lo 0,4%. Con l’espulsione, invece, di tutti gli immigrati illegali, l’effetto sul prodotto interno lordo sarebbe ancora maggiore, -4,7%, così come, tuttavia, quello sull’inflazione, -1%. A essere più interessati sarebbero Stati come California, Texas, Florida, dove l’impiego di stranieri, anche clandestini, è molto diffuso nel turismo e nelle costruzioni.
Tagli alle tasse prorogate, più crescita ma anche più debito
Gli altri campi di battaglia di questa come delle altre campagne elettorali sono stati quello fiscale e industriale. Alla fine del 2025 scadranno i tagli alle tasse del Tax Cut and Jobs Act (TCJA) del 2017. Donald Trump ha promesso di rinnovarli interamente, impedendo che, con la loro fine, le imposte sul reddito possano risalire dell’1-4% (a seconda degli scaglioni) e che la corporate tax sulle imprese ritorni al 35% dopo essere stata abbassata al 21%. L’estensione integrale dei tagli consentirebbe, secondo JP Morgan, un incremento della crescita del Pil americano dello 0,7% nel breve periodo, ma allo stesso tempo provocherebbe un aumento del rapporto deficit/Pil dell’1,7%, ovvero 5mila miliardi di dollari di disavanzo aggiuntivo tra 2025 e 2034, portando il debito federale al 134% del prodotto interno lordo, invece che al 122%, cifra cui arriverebbe senza rinnovo dei tagli alle tasse. Per Bloomberg, invece, con Trump presidente il debito tra dieci anni decollerà fino al 150,5% del Pil, salendo al 126,1% già nel 2030 e ciò accadrà nonostante un impatto positivo dei tagli sulla crescita annua del prodotto interno lordo dello 0,3% da qui al 2028 e uno dello 0,4% sul tasso di inflazione (la cui salita solitamente riduce il debito). Come in Italia e in Europa, anche negli Usa la situazione dell’industria da anni è molto dibattuta e per certi versi preoccupante. Anche per questo sono stati approvati incentivi e sgravi come quelli contenuti l’Inflation Reduction Act (IRA) e il Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors Act (CHIPS). Hanno stimolato investimenti privati per 500 miliardi di dollari che per diversi analisti sono tra le cause della maggiore competitività e crescita americana rispetto a quella europea. Secondo JP Morgan, anche se Donald Trump ha più volte criticato l’impegno finanziario federale soprattutto nell’ambito dell’efficienza energetica (tra i pilastri dell’IRA), la sua presidenza non interromperà questi provvedimenti. Tra i motivi fondamentali c’è il fatto che più del 90% degli investimenti hanno luogo in stati repubblicani o nei cosiddetti “swing States”, quelli in bilico tra progressisti e conservatori.
I settori maggiormente favoriti dalla nuova amministrazione Trump
Visti i programmi, quali settori potranno beneficiare, in termini di ricavi, profitti e quotazioni in Borsa, delle politiche di una presidenza Trump? Secondo gran parte degli analisti, come quelli di Ubs, i minori vincoli per l’industria dell’energia, soprattutto quella fossile, favorirà i titoli legati al comparto del petrolio e del gas. Un altro ambito che potrà beneficiare dalla vittoria del candidato repubblicano sarà quello dei servizi finanziari, grazie all’eliminazione di parte degli impianti regolatori e all’incentivo di operazioni di M&A (Merger and Acquisition). Pure il settore bio-pharma potrebbe essere favorito dalla presidenza Trump, soprattutto se l’IRA (Inflation Reduction Act), fosse ridimensionato e con esso i provvedimenti riguardanti la riduzione dei prezzi dei farmaci e le regole stringenti approvate dall’amministrazione Biden in questo campo. Più incerto l’impatto sui titoli dei beni di consumo che potrebbero soffrire per l’imposizione di dazi sui prodotti importati che provocherebbero un calo della domanda. Tuttavia un dollaro forte, conseguenza della presenza di dazi, non sarebbe negativo per le aziende, anche italiane, che hanno una forte presenza nel mercato americano, magari nel settore energetico, e che beneficerebbero del maggior valore di quanto venduto in Usa.
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